Il Portico de la Gloria
Don
Sandro Lusini, parroco di Porto S.Stefano (GR)
http://santiago.pellegrinando.it/sandro/sandro2.htm
Il
portico di Mateo si iscriverà come uno dei capolavori
dell’arte mondiale e non solo il vertice architettonico-simbolico
della cultura medievale del secolo XII. Il triplice
portale strombato ha i suoi precedenti più illustri
nel portico di Vézelay (1120 ca.), Dijion, Autun,
Paray-le-Monial, nelle grandi cattedrali come Chartres,
come anche il richiamo allo stile “bizantineggiante”
che ricorda Venezia, Palermo e Cefalù. Tuttavia
l’opera del Maestro Matèo è un unicum di grande
e suggestivo impatto: la facciata del Portico della
Gloria presenta una struttura architettonica a tre
piani sovrapposti, in cui si impiegarono per la
prima volta in Spagna volte a doppia crociera. Il
piano inferiore o cripta, popolarmente noto come
“cattedrale vecchia”, fu dedicato all’apostolo san
Giacomo il Minore e oltre alla necessità strutturale
di sostegno ben delineate da un grande pilastro
centrale che sostiene gi archi e i costoloni delle
volte del deambulatorio, rappresenta simbolicamente
il mondo terreno, decorato con una profusione di
fogliame e il mondo delle passioni umane, un mondo
che ha bisogno della luce degli astri del firmamento,
il sole e la luna, recati dagli angeli scolpiti
nella chiave delle volte centrali.
Il
secondo piano, quello principale, è il portico vero
e proprio, entrata occidentale della chiesa è composto
da un portico a tre archi, con statue-colonne e
rilievi in granito e marmo, originariamente policromi.
Sopra le volte con nervatura di questa seconda struttura
si eleva la tribuna, che da su un ampio corridoio
che percorre tutto il perimetro della cattedrale
in altezza, incluse le estremità del transetto e
il deambulatorio: si completa così la struttura
architettonica dell’edificio articolata su tre piani
e integrata da tre spazi sovrapposti, cripta-portico-tribuna.
Il
portico della Gloria è una sorta di canto del cigno
della cultura medievale occidentale del XII secolo,
segna il vertice di un’epoca ma anche il passaggio
di fase che comincia a delinearsi nell’Europa cristiana:
le nuove cattedrali del XIII secolo tenderanno a
smaterializzare i loro muri, preferendo le vetrate
alla pietra. Ma è soprattutto il richiamo teologico
che ha fatto del Portico più che un’opera d’arte
o di mirabile architettura. Siamo di fronte ad una
“Summa” di alta spiritualità e catechesi alla cui
base sta il testo dell’Apocalisse di Giovanni, guida
teologica eloquente per comprendere il valore e
il livello simbolico del Portico della Gloria e
della cattedrale di Santiago, nel loro insieme,
come immagine della Gerusalemme celeste, alla quale
accorrono in pellegrinaggio tutti i popoli del mondo
per venerare le reliquie dell’apostolo e pellegrino
e cantare le meraviglie del Signore nel suo tempio.
Il tempio apostolico è il simbolo della “nuova Gerusalemme
che scende dal cielo come una sposa adorna, pronta
all’incontro col suo sposo” (Ap. 21,2). Si tratta,
quindi, di una rappresentazione della città celeste
(“civitas dei”) prendendo per questo simboli provenienti
dall’Apocalisse di Giovanni, dal IV Libro di Esdra,
e dagli elementi apocalittici contenuti nei profeti
Isaia, Ezechiele e Daniele.
L’arco
centrale, il più maestoso, è presieduto dal Cristo
glorioso in trono, secondo la visione dell’apostolo
Giovanni, fratello di Giacomo, che ebbe nell’esilio
dell’isola di Patmos e culminata nel grande libro
che interpreta la storia dell’umanità “sub specie
aeternitatis”, l’Apocalisse. Il testo giovanneo
più di ogni altro affascinò la cristianità latina
avanti e dopo l’anno mille: tale interesse fu inoltre
alimentato grazie alla diffusione in Occidente,
tra il X e il XII secolo, dei codici miniati del
Commentario all’Apocalisse del Beato di Liébana,
figura chiave nella promozione del culto verso Santiago.
Beato combatté l’eresia adozionista del vescovo
di Toledo, Eliprando. Con lui si schierò il grande
Alcuino, precettore di Carlomagno. I suoi Commentari
furono miniati nei monasteri di Navarra, di Castiglia
e del León e, per la loro forza visionaria, divennero
un best-seller dei cosiddetti secoli bui, copiati
e ricopiati decine di volte[4]. In essi, l'arte
mozarabica, nata dall'incontro nella penisola iberica
della tradizione cristiana e di quella musulmana,
trova la sua massima espressione. Fu l'autore più
letto, spesso l'unico, nei monasteri europei medievali
dal IX all'XI secolo.
Nel
timpano dell’arco centrale incontriamo riassunte
diverse pagine dell’Apocalisse. Presiede la scena
una immagine maestosa e ieratica di Cristo Salvatore,
indubbiamente inspirata nella descrizione che del
Figlio dell’Uomo fa l’apostolo Giovanni nell’Apocalisse
(1,1-18). In accordo con questo testo, lo troviamo
cosciente della sua dignità e del suo potere. Nelle
sue mani e nei suoi piedi mostra le cicatrici delle
piaghe, come agnello immolato, attraverso la sua
immolazione ottiene il trionfo. Le sue vesti vogliono
dimostrare la realizzazione del suo sacerdozio.
Completando l’idea dell’agnello immolato e ispirato
nella stessa Apocalisse (5,14) ci presenta Matèo
otto bellissimi angeli con gli strumenti della passione:
la colonna, la Croce, la corona di spine, i quattro
chiodi e la lancia; una pergamena e una brocca,
alludendo sicuramente alla sentenza e a Pilato che
si lava le mani; e per ultimo una canna, una spugne
e una pergamena nella quale probabilmente stava
la scritta INRI. L’umanizzazione della figura di
Cristo nel timpano è in sintonia con la nuova sensibilità
sviluppata in Occidente nel corso del XII secolo:
attraverso la rappresentazione sofferente e umana
di Gesù il fedele si sente da lui attratto; non
più la distante e severa immagine del Cristo giudice,
caratteristica dell’iconografia tradizionale del
romanico, soprattutto avanti l’anno mille, ma un
Cristo compassionevole e buono, che mostra sereno
la sua vittoria sul male e sulla morte.
La
figura del Cristo in maestà, giudice dell’ultimo
giorno, trionfa come Salvatore e Redentore, a torso
nudo ma con i segni della passione ben in vista
è circondata dai quattro evangelisti, ognuno rappresentato
con i propri simboli Matteo sopra il banco di riscossione
dei tributi; sotto Marco sopra il leone alato; a
sinistra Giovanni sopra l’aquila e sotto Luca sopra
il toro. Alla destra del trono di Dio, tra san Luca
e san Giovanni, sgorga il fiume dell’acqua della
vita che va a fertilizzare la nuova Gerusalemme
(Ap 22,1). Presso il trono, due angeli con gli incensieri
che da ambo i lati rendono omaggio al Signore Sovrano
(Ap. 8,3-4). Nell’archivolto sono rappresentati
i ventiquattro anziani dell’Apocalisse nell’atto
di accordare i propri strumenti musicali per la
solenne liturgia celeste (Ap. 4): essi rappresentano
nella visione apocalittica le 24 classi di cantori
e sacerdoti dell’antico tempio di Gerusalemme, sono
seduti in una specie di divano dialogando tra di
loro e vestendo tuniche bianche e sopra le loro
teste portano una corona d’oro. Nelle loro mani
sostengono gli strumenti musicali (14 chitarre,
4 salteri, 2 arpe).
La
lettura e la contemplazione del portico va necessariamente
estesa ai due archi: in quello di sinistra è rappresentato
l’Antico Testamento e soprattutto l’attesa messianica,
in quello di destra il Giudizio finale o escatologico.
La ricca composizione figurativa dei due archi viene
sostenuta da statue-colonna, montate su un gruppo
di colonne in granito a fusto liscio, alternate
ad altre istoriate, in marmo ed elicoidali: il tutto
in perfetta simmetria spaziale e tematica con la
colonna dell’arco centrale dove sul lato sinistro
è presente la scena del sacrificio di Isacco messa
in relazione col sacrificio di Cristo; al lato destro
invece si trova la scena della risurrezione dei
morti, in relazione con il giudizio finale dell’arco
destro. Le statue-colonna di sinistra rappresentano
Mosè, Isaia, Daniele e Geremia recanti cartigli
con i versetti biblici (cancellati con l’andar del
tempo) che annunciano la venuta del Messia; le statue-colonne
di destra rappresentano invece gli apostoli di Cristo
e della Chiesa Pietro, Paolo, Giacomo e Giovanni
nell’atto di conversare.
Il
doppio sistema portante è retto da un basamento
di animali fantastici, forse simbolo dei peccati
e dei vizi, schiacciati dal potere spirituale che
il portico esprime con forza e vitalità. Sicuramente
questo tema è ripreso nelle scena dell’arco centrale,
alla cui base si può leggere l’episodio di Daniele
nella fossa dei leoni (Dan. 7-12), episodio interpretato
fin dall’antichità in chiave cristologia: Matèo
scolpisce la figura maschile con barba e capigliatura
abbondanti nel momento in cui sta aprendo con le
mani le fauci di due leoni. Sul lato opposto di
questa immagine si trova la figura di un fedele
che prega inginocchiato, rivolto verso l’altare,
con la mano destra sul petto, ad esprimere la sincerità
della sua fede: è il “santo dos croques” (il santo
delle capocciate, perché i pellegrini son soliti
poggiarvi la loro testa, quasi a trarne sapienza
e ispirazione), presunto autoritratto, secondo una
tradizione, dell’autore del portico stesso, il Maestro
Matèo.
La
colonna centrale (detta albero di Jesse) raffigura
la storia genealogica di Cristo, ed è sormontata
dalla statua dell’apostolo Giacomo colma di espressione
e serena bellezza in viso, nell’atto benevolo di
accogliere i pellegrini e soprattutto nel suo ruolo
di intercessore dei fedeli presso il Salvatore,
che presiede il timpano della gloria. E’ l’immagine
più celebrata di san Giacomo, colonna della chiesa
in una sorta di rappresentazione allegorica della
mediazione della Chiesa stessa, posta tra Dio e
gli uomini. L’apostolo appare maiestatico, seduto
su un seggio che poggia su dei leoni, vestito con
la tunica e il mantello, a piedi nudi, coronato
da un nimbo di rame dorato, appoggia la mano sinistra
su un bastone a forma di tau e sulla destra ha un
rotolo di pergamena, con il testo “Misit me Dominus”
(Mi ha mandato il Signore). Solennemente collocato
in cathedra l’apostolo occupa il posto riservato
di solito, nei portali romanici, al Cristo Salvatore
o alla Vergine Maria. L’immagine dell’Apostolo è
come “trasfigurata”, curata nella proporzione delle
forme e della quiete spirituale che sprigiona da
tutto il suo essere ha nella serenità e al contempo
nella solennità del volto il suo elemento spirituale
più alto. Anche la sua collocazione “architettonica”
è sorprendente: sopra il capitello della Trinità,
che riepiloga la generazione eterna di Cristo come
figlio di Dio e il capitello delle tentazioni di
Cristo che fa da preambolo al timpano della Gloria.
E’ evidente il significato simbolico: l’uomo, pur
portando in sé l’immagine della Trinità (Gen 1,26)
è sottoposto continuamente alle prove e tentazioni
della vita, prima di arrivare alla gloria del paradiso,
in questo aiutato dall’intercessione fraterna dell’apostolo,
amico del Signore. Il cammino dell’uomo raggiunge
il suo fine di partecipazione alla vita divina,
nonostante le difficoltà e il combattimento contro
le forze del male.
Questa
colonna di marmo, incastonata tra cinque colonne
con i fusti ricavati da un unico blocco di granito,
raffigura la genealogia umana di Cristo: da Jesse,
padre del re David, che dorme placidamente nel suo
letto, nasce un frondoso albero dai cui rami hanno
origine i re di Giudea e i profeti che annunciano
la venuta del Messia. Nella parte più alta del fusto
le profetesse Anna ed Elisabetta (Isabella) si chinano
di fronte a Maria, abbigliata con una fine tunica
e un velo cinto da un diadema, che con viso sereno
atteggia le mani in un gesto di umiltà, evocando
il momento dell’Annunciazione. La Vergine è l’unico
personaggio del fusto a non soffrire la pressione
dei rami dell’albero, simboleggiando così che fu
concepita senza peccato originale. Il capitello
di questa colonna presenta invece la genealogia
divina di Cristo: la Santissima Trinità nella sua
versione di paternitas, cioè Dio Padre che sostiene
in grembo il Figlio, nella posa premonitoria della
crocifissione, e sopra lo Spirito Santo in forma
di colomba.
I
cinque solchi presenti in questa colonna, formati
dall’atto di poggiarvi la mano destra, testimoniano
il ringraziamento e la richiesta di benedizione
all’apostolo compiuti da migliaia e migliaia di
pellegrini lungo i secoli. E’ questo uno dei riti
più diffusi insieme all’altro, caratteristico per
il pellegrino, di abbracciare sull’altare maggiore
il busto d’argento dell’Apostolo, ormai amico e
compagno di vita e successivamente di scendere nella
cripta per venerarne le spoglie. Qui, nelle viscere
della terra, nel 1884 fu collocata l’urna d’argento,
sormontata da una stella, contenenti le ossa dell’Apostolo
Giacomo e dei suoi discepoli, Teodoro e Atanasio,
nello stesso posto del sepolcro originale che li
aveva accolti prima del nascondimento avvenuto nel
secolo XVI per evitare che cadessero in mano dei
pirati inglesi. Per concludere la descrizione della
Cattedrale di Santiago vanno ricordati gli interventi
architettonici più importanti e che ancora oggi
rendono questo tempio una delle opere più imponenti
della cristianità: nel 1606 fu aggiunta la doppia
scalinata esterna e nel 1738 l’attuale facciata
occidentale barocca (Obradoiro) con le due torri,
quella de las Campanas a destra e all’altro lato,
quella de las Carracas. All’interno l’impronta romanica
si è ben conservata: con ben 100 metri di lunghezza
(nel 1258 fu allungata di oltre 30 metri), 70 metri
di estensione del transetto e 24 metri di altezza
della navata maggiore, la cattedrale compostellana
è la chiesa più grande del romanico spagnolo.
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